Le ombre della discriminazione nel mondo del lavoro immigrato
Alcune prime linee di indagine
1. La crisi che ha segnato le economie di tutto il mondo a partire dal 2007 ha colpito gravemente la popolazione immigrata. Sia i suoi effetti derivati come l’aumento della disoccupazione in particolare giovanile, sia la maggiore concorrenza sul mercato del lavoro, sia le misure di austerità e le riforme imposte dagli istituti di credito internazionali, hanno contribuito notevolmente ad accrescere le disuguaglianze economiche e sociali con un impatto proporzionalmente maggiore sui soggetti più vulnerabili, quali i migranti.
Un Rapporto che analizza l’impatto della crisi sulle minoranze etniche (Agenzia UE per i Diritti fondamentali – Fra 2015) ha messo in evidenza come, pur non essendo possibile una precisa quantificazione del fenomeno, lo sfruttamento del lavoro dei migranti sia “largamente diffuso anche se spesso rimane invisibile al pubblico, particolarmente in settori ad alto rischio come l’agricoltura, l’edilizia, il lavoro domestico”. Lo stesso Rapporto, dando conto tanto delle gravi forme di sfruttamento lavorativo, quanto della loro grande varietà, denuncia la difficoltà di far emergere situazioni in cui le vittime sono spesso nell’impossibilità di denunciare la violenza cui sono sottoposte, per scarsa conoscenza della lingua del paese in cui si trovano, ignoranza delle leggi, paura di perdere un lavoro per quanto indegno, timore di essere rimpatriati se si rivolgessero alle autorità, ansia per la loro stessa incolumità fisica .
Ma lo sfruttamento lavorativo cela anche l’esistenza di una forma di “razzismo istituzionale” inteso come “fallimento collettivo degli apparati statali” che non hanno saputo o voluto garantire un supporto appropriato alle persone per il colore della loro pelle, cultura o origine etnica, pregiudizi inconsapevoli, ignoranza, superficialità e stereotipi razzisti.
Lo sfruttamento lavorativo investe infatti un grande numero di politiche e relative normative, dalle politiche sociali e del lavoro a quelle dell’immigrazione, dalla giustizia penale, alla protezione delle vittime o alla tutela della libertà di movimento. La persistente, spessissimo impunita e pervasiva presenza di lavoro schiavistico, così come la sostanziale difficoltà per le vittime nell’accesso alla giustizia, sono la misura di quel fallimento collettivo degli apparati istituzionali cui si faceva sopra riferimento.
Pur in assenza di un meccanismo di raccolta di dati sufficientemente affidabili e comparabili negli Stati UE, molte ricerche (in particolare quelle contenute nello European Network Shadow Report – Brussels 2014) individuano comunque alcuni elementi comuni di fondo. Nello specifico denunciano come lo sfruttamento lavorativo sia la forma più grave di discriminazione etnica, anche se non certo l’unica. I risultati del suddetto Report in 23 Stati UE indicano cinque gruppi a grave rischio di discriminazione nel mercato del lavoro e dell’occupazione: migranti non cittadini Ue, inclusi i rifugiati, richiedenti asilo e immigrati in condizione di irregolarità, rom musulmani, persone di origine africana e cittadini europei non bianchi, donne con background migratorio.
Secondo tale Report, gli appartenenti a questi gruppi subiscono varie forme di discriminazione. Nella fase di reclutamento al lavoro, la selezione è spesso viziata da elementi come ad esempio: nomi che sono o sembrano “stranieri” o indirizzi in quartieri a forte presenza di minoranze; criteri e vincoli direttamente discriminatori utilizzati spesso dalle agenzie di intermediazione; difficoltà nel riconoscimento di titoli di studio e di qualifiche professionali ottenute al di fuori della Ue; insufficienti relazioni personali. E tutto questo rende difficile l’accesso al mercato del lavoro. Anche quando riescono ad ottenere una occupazione, immigrati o appartenenti a minoranze etniche e religiose sono spesso pagati meno dei loro colleghi a parità di mansioni, sono più frequentemente costretti ad accettare occupazioni dequalificate e condizioni di lavoro precarie e licenziamenti ingiustificati; sono frequenti anche le discriminazioni per l’uso di simboli religiosi come il velo o il rispetto di prescrizioni relative al cibo o ad altri obblighi di culto.
Si conferma in sostanza che la questione delle discriminazioni è ben più complessa della cronaca quotidiana di pratiche discriminatorie adottate da singoli individui, imprese o amministrazioni pubbliche: investe il complesso delle scelte politico legislative, ognuna delle quali è potenzialmente in grado di produrre effetti di discriminazione indiretta nei confronti di settori della popolazione caratterizzati dall’appartenenza a specifici gruppi etnici, religiosi o nazionali. Anche per questo è difficile comprendere pienamente l’ampiezza del fenomeno e ancor più prevenirlo o combatterlo efficacemente.
Ciò detto va anche sottolineato che in diversi paesi di Europa si sono registrati miglioramenti negli interventi contro la discriminazione, molto spesso grazie all’azione delle organizzazioni della società civile, ma anche per iniziativa delle autorità pubbliche e di governo.
In Italia, ad esempio, nell’ultimo quinquennio i casi di discriminazione etnico/razziali raccolti (cfr. Dossier Statistico Immigrazione 2014 e 2015) sono stati al centro dell’azione istituzionale di prevenzione e contrasto dell’Ufficio Unar. Si sono così potuti rilevare nello specifico i contesti in cui avvengono le disparità di trattamento che vanno dal mondo dei media, alla vita pubblica, al rapporto con le istituzioni pubbliche, all’accesso alla casa, alla convivenza interetnica, alla scuola, al rapporto con le forze dell’ordine, ai trasporti pubblici, all’erogazione di servizi pubblici ed ovviamente nel mondo del lavoro.
Si può segnalare in Italia un primo passo in avanti con la presentazione al Consiglio dei Ministri di alcune linee guida del “Piano nazionale contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza”, presentate il 6 agosto 2015 dal Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. Da allora tuttavia persiste uno stallo nell’esame del Piano.
Proprio il dato sull’esistenza di alcuni passi in avanti, debbono spingere a moltiplicare gli sforzi in direzione della comprensione e quindi della gestione delle dinamiche legate alla discriminazione. Solo in questo modo è possibile individuare strategie positive e strumenti efficaci nel governo dei percorsi di integrazione, nel rispetto dei diritti umani, delle diversità e della possibilità di implementare una dinamica equilibrata fra diritti e doveri.
In questa direzione ci si dovrebbe muovere per dare un contributo di sempre più approfondita conoscenza della discriminazione nel mondo del lavoro e individuare strumenti e modalità per una più efficace azione di contrasto.
2. Nessun percorso di integrazione può considerarsi efficace se non abbia affrontato e risolto il grave problema della discriminazione di cui è oggetto larga parte della popolazione immigrata.
Molti studiosi considerano l’esperienza della discriminazione una causa profonda di insoddisfazione dei migranti rispetto allo status nella società di accoglienza. Se infatti il loro accesso alle istituzioni o a beni e servizi pubblici e privati, non avviene su un piede di parità con i cittadini nazionali e in modo non discriminatorio, non può che determinarsi una caduta delle loro “aspettative di integrazione”, vedendo delusa l’esigenza di “riconoscimento” della società di accoglienza.
Questo incide profondamente sui delicati processi di identificazione e di auto-riconoscimento degli immigrati, soprattutto delle Seconde e Terze generazioni. E gli esiti possono essere drammatici. Fatti recenti lo stanno dimostrando.
Il non riconoscimento dei diritti ed il sentimento di marginalità che ne consegue (aldilà della ingiustizia insista nella discriminazione) stanno sfociando in gravissimi conflitti, mostrando come proprio la mancata o insufficiente interrelazione tra le componenti immigrate ed autoctone sono oggi il grande elemento di debolezza di tutti i modelli di integrazione in Europa, Italia compresa.
Ogni processo di integrazione si svolge infatti nella concretezza dei rapporti umani e coinvolge le parti della società civile (immigrati, da un lato, e autoctoni, dall’altro) la cui coesione sociale, è garantita solo dal riconoscersi in un patrimonio condiviso che sia il frutto del rispetto di regole comuni e soprattutto di eguaglianza.
Pare dunque ovvio riaffermare che si debba vigorosamente contrastare la discriminazione, la questione fondamentale essendo tuttavia quella di circoscriverne l’ampiezza e di individuare gli strumenti più efficaci per combatterla, nella consapevolezza che il fenomeno si presenta in termini complessi e molto articolati.
Di fatto la discriminazione non è una realtà unica ed omogenea, ma contiene molti aspetti e sfumature. Per questo si dovrebbe lavorare lungo due filoni di indagine: il primo mirato ad approfondire nei settori di lavoro specificamente individuati, la conoscenza della discriminazione oggettiva :presenza o meno di contratto di lavoro, tipologia contrattuale, mansioni svolte, ore lavorative effettive, retribuzione, ecc.
Il secondo punta ad affrontare la questione legata alla percezione della discriminazione da parte del singolo individuo, partendo dal dato che la discriminazione percepita rappresenta una realtà psicologica molto importante per gli immigrati e le minoranze etniche, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno un indicatore di oggettiva discriminazione.
Si dovrebbe dunque indagare lungo una doppia pista:
a) approfondire la conoscenza dei fenomeni discriminatori verso gli immigrati all’interno del mondo del lavoro in tre Regioni emblematiche ed in tre comparti specifici;
b) analizzare la percezione soggettiva ovvero le ragioni per cui l’immigrato si considera vittima per origini sociali, origini familiari, età, paese di provenienza, colore della pelle, lingua, opinioni politiche, religione e genere.
Uno dei problemi più significativi che si debbono affrontare nel rilevare e valutare la discriminazione rispetto ad entrambe queste due direttrici, risiede nel fatto che le vittime denunciano e segnalano solo in piccola misura le effettive discriminazioni subite.
Affinché una persona possa arrivare a sentirsi discriminata non è infatti sufficiente che subisca una discriminazione di trattamento, in quanto non sempre è consapevole dell’ingiustizia. Le persone possono non etichettare gli episodi oggettivi di discriminazione come tale, oppure per contro possono interpretare episodi minimi e non significativi come esempi eclatanti di discriminazione.
Questa duplice tipologia di indagine dovrebbe mettere in luce l’intreccio tra la dimensione oggettiva della discriminazione e gli elementi psicosociali della percezione dell’immigrato in un campo come quello lavorativo che rappresenta la condizione primaria di sopravvivenza, ma anche il presupposto per le possibilità di una effettiva integrazione, senza rischi di ingestibili conflittualità.
Nello specifico si dovrebbe approfondire la conoscenza dei fenomeni discriminatori verso gli immigrati in alcune Regioni emblematiche: Umbria, Campania e Puglia, ed in tre grandi aree di lavoro: edilizia, agricoltura, servizi di cura, che sono quelle che assorbono la maggiore occupazione e dove si determinano le più pesanti discriminazioni.
3. Pare utile fornire alcune indicazioni relative ai comparti ed alle Regioni in cui sarebbe utile approfondire la conoscenza della discriminazione.
a. Nel comparto delle costruzioni dati Istat riferiti al 2014 facevano registrare 245mila lavoratori stranieri, di cui il 45% comunitario ed il restante 55% di cittadinanza non comunitaria. In particolare, il 40% degli stranieri impiegati nel comparto è di nazionalità romena, il 23,5% è albanese e circa il 6% proviene dal Marocco. Nel comparto la presenza immigrata è dunque molto significativa, ma connotata da basse qualifiche, basse retribuzioni e precarietà nel rapporto di lavoro. La crisi (la più grave del dopoguerra) ha aggravato un comparto che già denunciava un drammatico ritardo nell’innovazione organizzativa e tecnologica e in cui pratiche deleterie, come la aggiudicazione al massimo ribasso e il ricorso al lavoro irregolare hanno determinato un complessivo down grading della concorrenza, fino quasi a destrutturare il sistema delle imprese a tutto discapito della qualità del lavoro.
Il comparto inoltre continua ad avere numerosi fattori di criticità strutturale soprattutto a causa del fenomeno di progressiva “destrutturazione del sistema imprenditoriale”. Tra i fattori che maggiormente incidono vanno segnalati : la caratterizzazione “micro” del sistema delle imprese che favoriscono la continua nascita e chiusura delle aziende individuali o di piccolissime dimensioni ( circa il 95% delle imprese hanno meno di 10 dipendenti),la mancanza in particolare di controlli nell’avviare un’azienda edile, la diffusione incontrollata del sistema di appalti e subappalti, il carattere stagionale delle attività di cantiere, l’occasionalità e la dequalificazione del lavoro e soprattutto un ‘ irregolarità diffusa che va dall’evasione all’elusione fiscale e contributiva (anche con il ricorso al lavoro nero), fino ad episodi di vera e propria illegalità nell’aggiudicazione degli appalti pubblici.
Da segnalare quanto alla distribuzione territoriale che l’87% degli stranieri occupati nelle costruzioni si concentra nel Centro/Nord (59% nel Nord e 28% nel Centro), mentre la presenza nelle regioni meridionali è relativamente bassa (13%).
In questa situazione la componente più debole, quella immigrata, ha scontato le maggiori difficoltà: mancato riconoscimento professionale, dequalificazione, crescita del differenziale retributivo lavoro irregolare, gravose condizioni di lavoro, crescita del lavoro a termine anche attraverso l’attivazione di falsi contratti part-time, false partire Iva ecc.
Nel corso degli ultimi anni la situazione si è ulteriormente aggravata, segnando una forte contrazione dell’occupazione ed una conseguente precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Nonostante tutto, il lavoro immigrato continua ad essere un elemento strutturale del sistema produttivo del comparto. Senza il suo fondamentale contributo molti cantieri semplicemente non sarebbero aperti, non si potrebbero mettere in sicurezza abitazioni, scuole, ospedali e territorio e non si potrebbero migliorare le infrastrutture esistenti e realizzare quelle necessarie. Diventa dunque essenziale rimuovere i vincoli che discriminano i lavoratori stranieri e agire per qualificare di più il lavoro se si vuole davvero rispondere alla crisi di un comparto importante come quello edile. Nel comparto delle costruzioni in Umbria si deve segnalare il fatto che si è registrato nel 2014 un forte calo di occupati (-10,4%), pur restando comunque quello che insieme al siderurgico registra la maggiore presenza di lavoratori stranieri. Ancora significativo è il fatto che le imprese a gestione immigrata (cfr. Unioncamere Umbria) all’inizio del 2015 erano in aumento e rappresentavano l’8,8% del totale delle imprese umbre. Il 30,6% del totale delle imprese straniere erano concentrate nel comparto delle costruzioni.
b. Quanto al comparto agricolo si richiama l’attenzione in via preliminare sulla puntuale analisi di Enrico Pugliese (cfr. Dossier Statistico Immigrazione 2014) secondo la quale “all’arretratezza dei rapporti sociali nel settore agricolo corrisponde una modernità dell’organizzazione produttiva e commerciale che porta al paradosso di un comparto ricco fondato su una manodopera povera.” Questo fenomeno peraltro non è una specificità italiana, né solo una caratteristica specifica dell’Europa mediterranea, al contrario anche una agricoltura ricca e ultramoderna come quella californiano in Usa, è largamente fondata sullo sfruttamento della manodopera migrante, spesso illegale.
Ciò detto, va sottolineata (Rapporto Svimez 2015) la più complessiva e grave arretratezza che affligge molti territori agricoli del Mezzogiorno che scivolano sempre più nell’arretramento e nei quali coesiste inefficienza della pubblica amministrazione, corruzione, distacco tra cittadini e cosa pubblica, Illegalità diffusa, infiltrazione profonda della criminalità organizzata, grave arretratezza di un comparto che è restato in molti casi indietro di mezzo secolo, rendendo fragile l’intero sistema economico e non in grado di misurarsi con la competizione globale, lasciando la sola alternativa per sopravvivere allo scaricare le sue inefficienze sull’anello più debole della catena: i lavoratori immigrati ed i piccoli produttori.
Ciò detto, secondo la stessa Coldiretti anche i distretti produttivi per eccellenza del Made in Italy possono sopravvivere solo grazie al lavoro degli immigrati: dalle stalle del Nord dove si munge il latte per il parmigiano reggiano, alla raccolta di mele nella Val di Non, dal pomodoro del Meridione alle grandi uve del Piemonte. D’altra parte, si stimava che nel 2015 (Eurispes, Uila) il lavoro sommerso riguardava il 32% del totale dei dipendenti del settore agricolo, di cui 100mila per lo più stranieri, sottoposti a gravi forme di sfruttamento e costretti a vivere in insediamenti malsani e fatiscenti. E ancora, secondo il Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto sono circa 4000mila, di cui più dell’80% stranieri, i lavoratori che potenzialmente trovano lavoro tramite l’intermediazione dei caporali. Inoltre, la presenza consistente di braccianti agricoli stranieri soprattutto nella fase della raccolta e nei lavori meno qualificati, si inserisce in un quadro molto articolato, dove l’apporto degli immigrati risulta decisivo per l’agricoltura italiana.
Sarebbero da indagare più approfonditamente i dati del comparto in Campania.
c. Quanto al comparto del lavoro di cura va specificato che si tratta di un settore che ha conosciuto in Italia un rapido sviluppo, sostenuto in particolare dall’aumento dei lavoratori stranieri. Dati Inps mostrano che dal 1995 al 2014 la loro presenza è andata aumentando, mentre di recente il fenomeno pare avere rallentato la sua corsa.
Se all’interno del lavoro domestico si considera il solo segmento “badanti”, le cifre portano ad una cifra di almeno 830mila di cui circa 750.000 straniere. Questa stima del numero di tutte le badanti anche irregolari, (cfr, S. Pasquibe- Roma 2013) non consente tuttavia di valutare appieno la reale entità della occupazione straniera nei servizi alle famiglie italiane, perché il fenomeno nel suo complesso è in larga parte sommerso.
E’ interessante notare che le badanti provengono nella stragrande maggioranza dei casi dai paesi dell’Europa (75%) e sono in generale di età più avanzata rispetto agli occupati come lavoratori domestici (cosiddetti colf); tra le prime circa la metà ha più di cinquant’anni.
Comunque considerando che una parte delle assistenti familiari può accudire anche due persone, in maniera più o meno intensa, il numero di anziani assistiti da badanti si può ragionevolmente stimare intorno al milione.
Le assistenti familiari straniere svolgono dunque un lavoro importante che richiede anche una forte dose di dedizione, spesso in co residenza con l’assistito e in condizioni di lavoro informale, fattori che rendono molto difficile conciliare le esigenze lavorative con la vita personale e familiare. Tutto ciò pesa sulla già difficile condizione vissuta da molte di essere madri a distanza che hanno dovuto lasciare i figli in patria affidandoli se minori alla cura dei parenti
Quanto al comparto in Puglia è da segnalare il fatto che nel 2015 erano in sofferenza nell’intero territorio regionale i comparti essenzialmente legati ai servizi, proprio quelli in cui le donne straniere riescono più facilmente ad inserirsi. Dalla contrazione lavorativa sono state così colpite tutte le immigrate a prescindere dalla loro cittadinanza, mentre la crisi (molto pesante in Puglia) ha costretto anche molte donne autoctone ad accettare l’inserimento nel lavoro domestico e l’assistenza agli anziani che fino a qualche anno prima erano stati di esclusivo appannaggio delle donne immigrate.
d. Quanto precede ha il solo obiettivo di delineare alcuni dati di contesto da utilizzare per l’avvio di una eventuale ricerca di approfondimento.
A cura di Aliseicoop